FRANCESCO RUTELLI

Cittadinanza, la mia intervista a "Il Giornale"

Il leader di ApI interviene sul Giornale sulla questione della concessione della cittadinanza 

Roma - È uno dei cavalli di battaglia di Gianfranco Fini, e anche il presidente Napolitano è recentemente sceso in campo per sostenerla a spada tratta («È una follia negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri»). Ma dal leader dell'Api Francesco Rutelli, che di Fini è alleato nel Terzo Polo, arriva un altolà («Così si trasforma l'Italia nella più grande clinica ostetrica d'Occidente») e un monito a guardare oltre «l'inganno del multiculturalismo e del politically correct».

Senatore Rutelli, da uno come lei, con la sua passata militanza radicale e la vicinanza al pensiero cristiano dell'accoglienza non ci si aspetterebbe il no alla cittadinanza per gli immigrati. Come si spiega?
«Non è un no. Se mai è un invito a non cadere nelle trappole di un buonismo controproducente, e a non deprezzare la cittadinanza italiana riducendola a semplice automatismo. L'idea che sia un pezzo di carta che chiunque può prendere, con la stessa facilità con cui si comprano le figurine all'edicola, è superficiale e pericolosa. Ci sono almeno due questioni preliminari trascurate in modo irresponsabile, e su cui invece è necessario riflettere prima di modificare le regole attuali».

Quali questioni?
«Se introduciamo il criterio dello jus soli, ossia l'automatica cittadinanza italiana per chiunque nasca sul nostro territorio, rischiamo di trasformare l'isola di Lampedusa o il porto di Ancona o la stazione di Trieste nelle succursali della più clamorosa clinica ostetrica d'Europa. Diventando cittadini italiani si diventa cittadini Ue: l'Italia si trasformerebbe, per motivi puramente geografici, nella piattaforma per acquisire strumentalmente il libero accesso a tutta la comunità europea».

Sta dicendo che le immigrate verrebbero a partorire tutte qui?
«Sto dicendo che dei 23mila tunisini sbarcati a Lampedusa, in fuga dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, sì e no duemila sono rimasti in Italia. Per tutti gli altri siamo stati solo un passaggio verso il resto d'Europa. L'automatismo della cittadinanza incentiverebbe questo fenomeno».

E la seconda questione preliminare?
«L'introduzione del principio dello jus soli creerebbe una contraddizione inestricabile a livello costituzionale. Perché, ci piaccia o no (e io ho molti dubbi in proposito), noi abbiamo introdotto nella Costituzione il principio dello jus sanguinis, ossia l'esatto opposto».

Si riferisce al voto degli italiani all'estero?
«Esattamente. È stata fatta una legge costituzionale, che serviva da riconoscimento simbolico di quella grande ferita che è stata l'emigrazione di massa degli italiani tra fine '800 e primi del '900, e che ha introdotto nella nostra Carta lo jus sanguinis a tempo indeterminato. Abbiamo dato il diritto di voto a discendenti di emigranti, che magari non parlano neppure la nostra lingua, che non pagano le tasse in Italia, che hanno legami ormai debolissimi con la terra dei loro avi. Ma che possono votare propri rappresentanti nel Parlamento italiano esattamente come me e lei. Una scelta discutibile, ma che è stata fatta. Come facciamo a sostenere anche l'esatto contrario?».

E allora come va affrontato il problema dell'integrazione degli immigrati?
«Partendo dal principio che la cittadinanza italiana è il traguardo di un cammino, e non un fatto meramente amministrativo da risolvere con un certificato. Io ad esempio sono favorevole ad accorciare i tempi di concessione, perché dieci anni sono tanti; e a dare la cittadinanza a tutti i bambini nati qui che abbiano fatto la scuola dell'obbligo: dopo la terza media anziché a 18 anni. Ma con regole precise: chi vuol diventare cittadino da maggiorenne deve conoscere la lingua e i principi basilari della nostra convivenza civile, e deve fare una dichiarazione impegnativa di riconoscimento della Costituzione. Facendo attenzione ad alcuni aspetti: se vogliamo l'integrazione senza cadere nella trappola di un multiculturalismo fallito, non possiamo accettare da chi vuol diventare cittadino italiano alcuna ambiguità sui diritti umani fondamentali».

Si riferisce all'Islam militante?
«Mi riferisco a quella componente non laica dell'Islam che persevera in pratiche che contraddicono i nostri principi basilari: dalla poligamia all'assoggettamento della donna. Un padre che vieta a una figlia femmina di andare a scuola non è compatibile con la cittadinanza italiana».

Ne ha parlato con Fini, che invece sostiene l'introduzione della cittadinanza per chi nasce in Italia?
«Sì, ne abbiamo discusso. E ci sono senz'altro alcuni punti di divergenza».

Teme fughe in avanti da parte dell'attuale governo?
«No: il ministro degli Interni Cancellieri, ma anche quello della Cooperazione Riccardi, non si sono espressi a favore dell'automatismo. E mi fa piacere».

di Laura Cesaretti - 22 febbraio 2012,
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