Intervista a Repubblica: «Il partito non si chiuda su se stesso urgenti regole snelle e idee nuove»
L´allarme del presidente del Copasir sul "congresso-maratona" imposto dallo statuto
Abbiamo perso la vocazione maggioritaria. Nasceranno i "Liberi democratici", con un programma forte per il Paese. Franceschini o Bersani? Prima dei nomi, il problema è quello del progetto, dei contenuti
Non ha parlato subito. Francesco Rutelli, presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza), ha avuto molte grane di cui occuparsi negli ultimi tempi: verifiche sull´uso degli aerei di Stato, sulla sicurezza del premier, sulla sua scorta. Temi che l´ex leader della Margherita tratta con la dovuta discrezione. Invece, sul Pd, può parlare forte.
Rutelli, secondo lei, a che punto è il Pd dopo le elezioni?
«Il Pd è in grado di competere. Ma certo non ha vinto le elezioni. Va raddrizzata la prospettiva, perché c´è un rischio evidente: che un partito nato a vocazione maggioritaria diventi un partito a vocazione minoritaria. Il Pd doveva essere - e deve essere - il partito guida nel campo riformatore e progressista, la grande forza plurale in grado di creare, ovviamente non in un regime di autosufficienza, la maggioranza democratica del futuro. Questa è la ragione sociale del Pd».
Secondo lei c´è stato uno snaturamento del progetto?
«Vedo un messaggio minoritario. E questo mi preoccupa. Se nel paese c´era una maggioranza di destra sopra il Po e in Sicilia, oggi quella presa si sta allargando in un consenso forte. Solo il Pd può rispondere alla sfida. E ci vuole un Congresso vero, fondante».
Sembra di capire che le prime mosse congressuali non la convincano.
«Sarò chiaro: lo schema congressuale è sbagliato. Le primarie-plebiscito sono servite ai tempi dell´Unione per incoronare Prodi e segnalare il posizionamento degli altri candidati, come Di Pietro e Bertinotti. In seguito lo statuto del Pd è stato ritagliato sullo schema della candidatura di Veltroni, anche qui prevedendo i posizionamenti di candidati di minoranza (all´epoca, Bindi e Letta). Usare un sistema del genere adesso, con due, tre, vere candidature alternative, può dimostrarsi un serio errore. Intanto, perché avremmo potenzialmente due maggioranze diverse: una tra gli iscritti, che eleggono i livelli locali, e un´altra tra i votanti delle primarie, che sono aperte a tutti. Salvo poi tenere un ballottaggio tra i due meglio piazzati ristretto a 1.000 delegati di partito!».
Un percorso di guerra...
«Tra una cosa e l´altra il partito sarebbe a congresso per un anno. Sei mesi, fino a dicembre, inclusi i congressi locali; con una ripresa da aprile a giugno 2010 dopo le regionali. Un anno di discussioni interne, un anno di esponenti del Pd che dichiarano le loro posizioni e reciproci dissensi ai Tg della sera, con sommo piacere di Berlusconi. Questo mentre la crisi si aggrava, mentre nel centrodestra si apre una partita nuova. Ce lo possiamo permettere? Non credo. Soprattutto, va evitato che il partito sia inchiodato a una sfida ripiegata su se stessa, condizionata dalle aggregazioni interne e non dalle idee».
E allora via le primarie?
«Non dico questo. Coinvolgiamo il massimo di cittadini, anche i non iscritti in una primaria. Sono per un Congresso vero e candidati veri. Ma non per una estenuante maratona. Credo che la Direzione ci debba ripensare. Se necessario, farsi dare un mandato da un´Assemblea Federale-lampo per adottare regole statutarie più snelle e procedure più coerenti e rapide».
Tra Franceschini e Bersani?
«Oggi non le rispondo. Il problema, prima dei nomi, è quello dei contenuti, del progetto del Pd. Oggi siamo minoranza nel Paese. Più di ieri. Non rappresentiamo i ceti medi né settori moderati, non intercettiamo un certo tipo di protesta, non siamo interlocutori della piccola impresa, della cooperazione, degli artigiani. Il Nord è la grande questione, ma c´è il rischio di un rimbalzo negativo, di sfiducia, al Sud, su cui dobbiamo lavorare prima delle regionali. Se il messaggio è che ci accontentiamo dei risultati delle elezioni, non cogliamo la differenza tra un partito che ha un voto su tre e uno che scende a un quarto dei consensi, mentre le destre sfiorano il 50% dei voti pur venendo penalizzate dall´astensione».
Bisogna affondare la lama, ci vuole più autocritica?
«Non ne ho sentita per niente da parte dei promotori dei referendum elettorali: scriteriati, spazzati via e dimenticati in un minuto. Assisto poi all´evocazione in queste ore delle "giunte rosse", delle "roccheforti di sinistra" che resistono. Sembra di tornare al linguaggio degli anni 80... Ha fatto caso che molti dei vincitori delle sfide amministrative, invece, non ricadono affatto in quel cliché? Insisto: un partito che si chiama democratico deve essere pluralista, inclusivo, aperto. E la sfida per il Congresso serve a definire finalmente le basi di un pensiero, di una cultura politica. A conquistare nuovi spazi all´esterno, più che a combattere per prevalere all´interno».
Rutelli, perdoni, lei vola alto ma i congressi sono anche carne e sangue, scontri. Franceschini dice che si è candidato proprio per evitare di lasciare il partito a quelli che c´erano prima...
«Senta: noi abbiamo una grande opportunità. Sono chiuse le esperienze del PcI-Pds-Ds e della Margherita. Non ci dobbiamo misurare con la crisi continentale della socialdemocrazia - a proposito, non è brillante l'esordio del gruppo europeo a dominanza socialista - ma possiamo incrociare la suggestione mondiale della rinascita, con Obama, di un grande partito che ha lo stesso nome del nostro. Ecco l´occasione: vinca il Congresso chi è più bravo a mettere insieme "quelli che c´erano prima" - di cui fanno parte entrambi gli attuali contendenti alla guida del partito - con energie nuove, dirigenti nuovi, portatori di idee nuove».
Non ha pensato di candidarsi lei?
«No, ho dato il mio contributo costruendo una forza politica a due cifre e facendo confluire quell´esperienza nel Pd. Ora tocca ad altri. Io posso certamente dare un contributo nell´aggregare, con altri, molte persone che condividono una linea riformista, modernizzatrice in economia. Che vogliono mettere la "rivoluzione verde" in cima ai nostri programmi. Ripensare il Pil come feticcio del benessere nazionale. Affrontare a viso aperto la sfida per la sicurezza. Ma non mi faccia dire di più: ci riuniremo venerdì 3 luglio e sabato 4 a Roma e lì discuteremo un programma forte per il Paese e per il congresso».
Un altro manifesto dei coraggiosi?
«Proporrò che quelli che lo condividono si chiamino Liberi Democratici. Non più "rutelliani"! Penso a un maggiore pluralismo tra riformisti liberalsocialisti, cattolici, ambientalisti. E a un forte ingresso di under 40, alla maniera di Matteo Renzi. Uno che non si lagna per essere escluso, ma combatte e si impone per mettersi al servizio della sua comunità.
Diciamo che il Pd non vada nella direzione che lei auspica. Che cosa fa? Se ne va con Casini?
«Il rapporto con l´Udc è importante. Ma io mi batterò per creare le condizioni della futura maggioranza democratica nel partito che ho contribuito a far nascere».
Alessandra Longo per Repubblica 26 giugno 2009